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Natura

La Val Veddasca

A mio giudizio nulla descrive meglio la natura della Veddasca di questo racconto (" GIONA") che ho scritto molti anni fa, primo di una serie intitolata "Monterozzo ed altre storie del lago", e pubblicato sul n.XI di "Lombardia Oggi" (allegato settimanale al quotidiano La Prealpina) nel giugno 1990:

GIONA

Io sono nato qui, tra queste cime color ferro, in un tempo che non rammento più, sotto un cielo percorso da nuvole che si arrotolavano gioiose nel vento e perdevano riccioli candidi. Ho indugiato silenzioso tra l'erba e i sassi, quasi incerto di andare, chiamato presto ad un veloce salto tra aspre gole che hanno aperto il mio cammino.
Mi ha generato il bianco seme dell'inverno ed il tepore della primavera che ha sciolto la spessa coltre ghiacciata.
Corro da sempre tra quest'alveo di rocce aguzze che oramai ho levigato, erodendole tenacemente giorno dopo giorno, sciogliendone la forza e scavandomi liscissimi gomiti in cui fluire. Pietre chiare e pietre scure, ombrose dapprima d'abetaie fitte e severe, poi quiete tra betulle, faggi e castagni, verdeggiate di muschio e felci.
Dopo molti salti, da polle lucide e fresche in cui si specchia il cielo, precipita l'acqua di molte sorgenti, avvitandosi tra tortuosi giacigli e mi si congiunge in questa valle. La neve e la pioggia di ogni stagione mi nutrono perché io - talvolta iroso e grosso di spuma - dia vita ad altre vite. La mia corsa veloce termina nell'immota vastità del lago trascinando con sé quanto finisce tra le mie acque: tronchi, foglie e corpi inerti d'ogni specie e si rinnova perpetua.
Io non provo sentimenti, come tu che m'ascolti, anche se - nel profondo del mio grembo - non ignoro il guizzo lieto della trota. Il mio furore - che acciglia l'uomo che si spinge tra gli speroni a picco o che cerca il guado - è la mia stessa vita, è la forza che compie il mio destino. Non celo animosità o insidie che non siano l'imprudenza stessa di chi non sa come io sia fatto.
Sulle mie verdi sponde scendono a dissetarsi il camoscio, la volpe ed il rumoroso cinghiale. Scivola tra i sassi bianchi la biscia e sfugge il falco che veleggia con occhi acuti. Ma ci fu un tempo in cui molte altre creature s'affacciavano alle mie alte rive; ma non ne odo più l'avvicinarsi tra le foglie morte del bosco.
Io non possiedo né il giorno, né la notte, poiché io non vedo altro che il mio sentiero e solo questo percorro continuamente. Ascolto però le voci del tempo, che muove la vita, in questa mia fissità. Io rammento - questo sì - il canto del mugnaio ed il vorticoso sciacquio tra le pale del mulino, il cigolio della macina, i passi e le voci del pastore. Ricordo i giochi d'acqua dei fanciulli tra i fossi e le brevi anse erbose, il sonoro battito dei panni lavati - come uno schiaffo - sui massi color cenere.
Altro non so, ma è strano questo silenzio che sa d'abbandono che colma questa valle, dove le cincie ondeggiano sui rami di sambuco al limitare dei boschi che si tuffano nelle gole. Forse tu che m'ascolti sai darti ragione di quel vecchio mulino che tace da molte stagioni e del perché, più a valle, incontro acqua stanca.
La mia voce, in primavera, è come un ruggito che copre anche il soffio del vento; ma si leva sommessa d'inverno quando alta è la neve che tutto copre e che schianta sotto il suo peso i rami degli alberi protesi sull'acqua.
Io vado e non torno che in altra forma, sempre uguale eppure sempre diverso: dal cielo alla terra e da questa ancora al cielo in un punto che non conosco ma che immagino immenso. Di certo più grande di questa stretta e buia valle che s'incunea scura tra pareti tappezzate di foreste e sale fino alla mia culla. Ma dopo l'ultimo salto che precede l'abbraccio con il lago io perdo la memoria di me stesso, annullandomi in più vasto regno d'acque, rumoroso di gente. Che cosa ne sia di questa mia chiara e - per te che m'ascolti - fredda vita io non so dirti che forse tu non sappia già.
Io mi offro a te che m'ascolti senz'altra possibilità di scelta, allungato in questa solco di montagna, fluendo come sangue in una vena. So che solo tu potresti farmi del male, ma sarebbe come fare del male a te stesso. Io non ne proverei dolore, ma per me soffrirebbero quanti vivono delle mie acque. Io conserverei - se mai me ne restasse abbastanza - una piccola misura di vita tra queste cime dove nasco ogni volta che il padre inverno stende le sue nuvole grigie e gonfie di gelo. Accetterei, altro non posso fare, il confine di morte che tu potresti impormi, al di là del quale - come accade ad altri miei fratelli - perderei la mia linfa e non sarei più acqua ma corpo inerte.
Ma non temo per me tra questi monti dove il tasso s'aggira sicuro di notte ed il fumo dei pochi camini è chiaro e profuma di legna secca messa ad ardere. Non temo le voci dei cercatori di funghi, lo scalpiccio delle capre sui sentieri, il sonnacchioso stirarsi del cinghiale, il cauto avanzare degli stivali del pescatore di trote.
So che mi hai chiamato Giona ma ignoro il perché. Ho imparato a conoscere il mio nome dalle voci che si sono succedute in questa valle e ciò mi basta. Io continuo a scorrere incurante di quanto mi accade intorno; già sin dalla prima goccia, dal primo fragile invaso, dal primo schiumoso impatto contro le rocce su cui precipito io sento che andrò lontano.
Io, Giona, percorro questi anfratti con l'impeto del vento che batte le montagne, filo veloce fino al lago che mi attende quieto e gli porto la voce dei miei luoghi nativi e tutto ciò che tu mi dai da portare. E tu mi dici che da là confluirò nelle acque di un lungo fiume e che - con esso - mi riverserò in un altro fiume ancora finché giungerò al mare.

Salvatore Benvenga


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